Le donne e il voto del 1946
Il diritto del voto alle donne è una grande conquista seppur recente.
All’inizio del secolo scorso la donna era ritenuta una sorta di accessorio dell’uomo. Nel lento cammino verso l’uguaglianza dei diritti, arriva la Prima Guerra Mondiale: le donne sono impegnate, per necessità, nei lavori di responsabilità fino ad allora delegati all’uomo.
Le donne, uniche «volontarie a pieno titolo nella resistenza» (A. Bravo-A.M. Bruzzone, In guerra senz’armi. Storie di donne, 1940-1945, Roma, Bari, Laterza, 1995, p. 189), in quanto non sottoposte ai bandi di reclutamento, e in generale non obbligate alla fuga e al nascondimento, sono impegnate in ognuno dei compiti previsti dalla lotta di Liberazione nelle sue varie modalità: «nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, […] [nei] Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà» (A. Bravo, Resistenza civile, in Dizionario della Resistenza, a cura di E. Collotti-R.Sandri-F. Sessi, Torino, Einaudi, 200o, v. 1, p. 268).
Le donne sono le coprotagoniste principali della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa ottengono risultati estremamente concreti e importanti da un punto di vista strategico e politico: si pensi alle donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo letteralmente svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando così la miccia dell’insurrezione cittadina. Si pensi, ancora, alle cittadine di Carrara che, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica.
La lotta di Liberazione offre alle donne la «prima occasione storica di politicizzazione democratica» (Ivi, p. 271. Bravo fa riferimento a B. Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Torino, Einaudi, 1977; M. Mafai, Pane nero, Milano, Mondadori, 1987), ma si tratta di un’esperienza non priva di contraddizioni: in un universo in cui permane la «centralità del paradigma del maschio guerriero» (S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, p. 213), che fa della lotta armata una modalità prettamente maschile, conservando «archetipi culturali» che richiederanno altri decenni per essere anche solo scalfiti, le donne partigiane imbarazzano e destabilizzano anche coloro che, al loro fianco o con loro al proprio fianco, hanno combattuto per dar vita a qualcosa di radicalmente nuovo. È per questa ragione che, alla Liberazione, le donne sono escluse da molte delle sfilate partigiane nelle città liberate; in precedenza, non erano mancate, tra i compagni di lotta, le voci che criticavano la scelta femminile di abbandonare il focolare per impegnarsi nella guerra partigiana, che implica convivenza, promiscuità, assenza di controllo parentale. Oltre a questo, anche la Resistenza cerca spesso donne che siano disposte a continuare a svolgere, per quanto delocalizzate dagli spazi consueti dell’esistenza di generazioni e generazioni femminili, i compiti classici dell’assistenza e della cura: quindi, più che combattenti, si vogliono donne madri e spose, cuoche e infermiere. Alle donne, in sintesi, si dimostra gratitudine e rispetto, ma non riconoscimento politico o militare: «Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. Il grado più alto attribuito alle donne è quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente» (A. Bravo, Resistenza civile, cit., p. 273). Sebbene impiegate in ambiti diversi all’interno del molteplice universo della Resistenza – le donne riassumono in sé quasi tutte le anime plurali dell’opposizione al nazifascismo, dall’estremo della lotta armata a quello della resistenza disarmata – gli elementi femminili risultano quasi “condannati” al compito ancillare e ausiliario, al ruolo «vago e miniaturizzante» (Ivi, p. 272) di staffette, che, tuttavia, è solo apparentemente meno pericoloso, in quanto implica la trasmissione di materiali (ordini, direttive, armi, munizioni etc.) talmente scottanti da esporre a rischi serissimi i latori, che per giunta sono disarmati e quindi materialmente incapaci di difendersi.
Questa sottovalutazione riguarda lo svolgersi della lotta e soprattutto ciò che accade dopo la conclusione vittoriosa di essa: pochissime (35.000 a fronte di 150.000 uomini) sono le donne alle quali sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, nonostante un impegno, nei fatti, molto più significativo. Tante donne, presumibilmente, non chiederanno il riconoscimento; a tante, materialmente, esso sarà ingiustamente negato.
Per decenni è stato definito ‘un contributo’. Ma il ruolo delle donne fu molto di più: scelsero la Resistenza senza essere inseguite da una cartolina precetto, scelsero pur essendo cittadine senza diritti, nemmeno quello fondamentale del voto che avrebbero esercitato per la prima volta nelle elezioni amministrative del marzo 1946 e in quelle politiche del 2 giugno 1946. Non fu un passaggio scontato, come ha ricordato Marisa Cinciari, nata nel 1921, partigiana e poi impegnata in politica: «Un diritto che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ’45 ma non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese».
Infatti, senza le donne la Resistenza non sarebbe stata possibile. Lo diceva chiaramente Lidia Brisca Menapace, classe 1924, nome di battaglia ‘Bruna’, sottotenente della divisione Rabellotti che operava in Val d’Ossola, poi figura di rilievo della politica e del movimento pacifista. Il Covid se l’è portata via nel 2020, ma fino all’ultimo Lidia ripeteva che quello delle donne fu un apporto decisivo. Furono proprio loro a ricoverare e aiutare l’esercito allo sbando dopo l’8 settembre, a garantire i collegamenti tra pianura e montagna portando armi e messaggi, a nascondere fuggitivi e clandestini, insomma a organizzare quella ‘resistenza civile’ che negli anni dopo la guerra sia la politica che la storiografia trascurarono pesantemente.
Ma quante furono le donne impegnate nella lotta partigiana? Difficile rispondere in maniera precisa. Secondo l’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani), quelle coinvolte nei Gruppi di difesa della donna furono 70 mila, quelle a cui a fine guerra fu assegnato il riconoscimento ufficiale di ‘partigiano combattente’ 35 mila (contro 150 mila uomini), 1070 caddero in combattimento, 4653 furono arrestate e torturate, 2750 vennero deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate. Le medaglie d’oro assegnate furono 19.
Una volta terminata la guerra, l’esperienza della Resistenza e della Liberazione, era divenuta oramai un punto di non ritorno per il paese e anche per i diritti delle donne. In occasione del Consiglio dei Ministri del 30 gennaio 1945 venne esaminata per la prima volta l’estensione del voto alle donne dai 21 anni, sancita con il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 31 gennaio 1945. Ma è il decreto n.74 del 10 marzo 1946, in occasione delle prime elezioni amministrative postbelliche, che le donne con almeno 25 anni di età potevano eleggere ma soprattutto essere elette. E fu così per le prime sei sindache donne elette in Italia: Margherita Sanna a Orune, in provincia di Nuoro; Ninetta Bartoli a Borutta, in provincia di Sassari; Ada Natali, che sarà poi parlamentare, a Massa Fermana, in provincia di Fermo; Ottavia Fontana a Veronella, in provincia di Verona; Elena Tosetti a Fanano, in provincia di Modena; Lydia Toraldo Serra a Tropea, in provincia di Vibo Valentia.
Si avvicinava la data del 2 giugno, quella del voto per eleggere l’Assemblea Costituente, che avrebbe poi redatto la Costituzione Italiana, e contestualmente del referendum per scegliere il futuro assetto politico del paese: Monarchia o Repubblica? Come ricorda la giornalista Anna Garofalo: «Le schede che ci arrivano a casa e ci invitano a compiere il nostro dovere, hanno un’autorità silenziosa e perentoria. Le rigiriamo tra le mani e ci sembrano più preziose della tessera del pane. Stringiamo le schede come biglietti d’amore.».
Il risultato del Referendum del 2 giugno 1946, proclamato dalla Corte di Cassazione il 10 giugno 1946, vide vincere i voti a favore della Repubblica con il 54,3% delle preferenze.
Il 25 giugno 1946 si riunì per la prima volta l’Assemblea Costituente e ben 21 donne entrano a far parte di quel gruppo di eletti che potevano sedere ufficialmente nei banchi della politica. Le cosiddette Madri Costituenti erano rappresentanti dei diversi partiti presenti nel paese: nove dalla DC, nove dal PCI, due dal PSIUP ed una dal Fronte Liberale Democratico dell’Uomo qualunque.
Con il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo, le donne entrarono per la prima volta in Parlamento. Le elette furono 21 su un totale di 556 deputati, a giusto titolo definite le nostre “Madri Costituenti”.
L’ingresso di queste 21 donne nello scenario politico nazionale fece sì che le istanze del mondo femminile, fino ad ora delegate agli uomini, potessero essere portate avanti in prima persona da chi fino a poco prima era senza voce. Quelle 21 donne rappresentavano tutte quelle staffette e partigiane che al momento del voto non avevano compiuto la maggiore età ma anche tutte le donne che ora si sentivano sempre più paritarie agli uomini.
Cinque tra queste entrarono nella Commissione dei 75, incaricata di scrivere la Carta Costituzionale: Maria Federici, Angela Gotelli, Tina Merlin, Teresa Noce e Nilde Jotti che trent’anni dopo divenne la prima Presidente della Camera donna. Pur appartenendo a schieramenti politici diversi, fecero spesso fronte comune per l’affermazione dell’uguaglianza giuridica fra i sessi, per il superamento dei tanti ostacoli che rendevano difficile la partecipazione delle donne alla vita politica, sociale ed economica del paese.
Le 5 donne della “Commissione dei 75”
Maria Agamben nacque a L’Aquila il 19 settembre del 1899 da Alfredo e Nicolina Auriti. Animata da una profonda fede, la giovane Maria si formò sulle pagine dei due principali teorici del pensiero cristiano sociale, Emmanuel Mounier e Jacques Maritain. Conseguì la laurea in lettere e intraprese la professione di insegnante.
Angela Gotelli nacque a San Quirico, frazione di Albareto, sull’Appennino parmense, il 28 febbraio 1905 da Domenico, medico condotto, e Tullia Fattori.
Durante gli anni del liceo, a La Spezia, fu attivista nel movimento femminile cattolico, proseguì gli studi all’Università di Genova, dove frequentò la facoltà di lettere e filosofia. Nel periodo universitario la Gotelli frequentò la Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), dove collaborò a iniziative culturali e formative.
Angelina Merlin, più nota come Lina, nacque a Pozzonovo, in provincia di Padova, il 15 ottobre 1887, in una famiglia numerosa della borghesia progressista: il padre era segretario comunale e la madre maestra. Anche Lina a vent’anni iniziò a lavorare come maestra a Padova fino al 1926 quando, essendosi rifiutata di prestare giuramento al fascismo, fu estromessa dall’insegnamento.
Teresa Noce nacque il 29 luglio 1900 in uno dei quartieri più poveri di Torino e venne allevata insieme con il fratello, di qualche anno più grande, dalla madre dopo che il padre li aveva abbandonati.
Teresa cominciò a lavorare a sei anni consegnando il pane, poi come stiratrice, sarta e tornitrice alla Fiat. Fu il fratello ad avvicinare Teresa alle idee socialiste, oltre che all’ambiente della fabbrica.
Nilde Iotti (all’anagrafe Leonilde Iotti) nacque a Reggio Emilia il 10 aprile 1920, figlia di un ferroviere e sindacalista socialista, Egidio, licenziato a causa del suo impegno politico. Il padre morì nel 1934 e nonostante le forti difficoltà economiche poté proseguire gli studi grazie a borse di studio che le permisero di iscriversi all’Università Cattolica di Milano, dove ebbe tra i suoi professori Amintore Fanfani, si laureò in lettere nel 1942.